La vicenda è stata significativa nel suo decorso: l’autore è stato costretto recentemente a sporgere denuncia alla polizia postale affinché la pagina venisse rimossa, ma puntualmente sono ricomparsi altri profili con il suo nome, per quanto l’autore abbia ribadito in più interviste “non sono su internet”.
Su scala planetaria il fenomeno rappresenta un vero e proprio business: secondo il New York Times, il solo giro dei falsi account su Twitter ammonta intorno ai 300 milioni di euro, cosa che spaventa soprattutto gli inserzionisti che si ritrovano a dover fronteggiare numeri gonfiati.
Allo stato attuale, dal punto di vista giuridico, non esiste in Italia una reale tutela per l'identità digitale: nel giudicare questo tipo di reato si procede per analogia con l'articolo 494 del codice penale che disciplina il furto d'identità generico. Tuttavia non esiste ancora una legge specifica per tali furti sul web, cosa molto grave dato che sono spesso collegati alla sottrazione di dati bancari e diffamazione attraverso i social network.
Il tutto diventa ancora più surreale se si pensa che per punire questo tipo di reati l’ostacolo più grande è la privacy, la stessa che dovrebbe essere tutelata: per collegare un indirizzo IP (di un ipotetico violatore) ad un nome, ci vuole l'autorizzazione di un magistrato. Autorizzazione che, puntualmente, spesso non arriva perché sul piano giuridico la privacy viene ritenuta superiore rispetto al reato digitale.
Punto a capo.
Italia?